Boom dei volontari? Non scordiamo i missionari

Un articolo del 2005 di padre Piero Gheddo dall’archivio della rivista “Vita e Pensiero”. Si parla tanto dei volontari laici ma i missionari sono molti di più e nessuno li considera.

di Piero Gheddo
Un fatto strano continua a stupirmi. Si parla molto di quella che è la vera sfida della globalizzazione all’Occidente: l’abisso fra Nord e Sud del mondo (in senso economico, democratico, di diritti dell’uomo, culturale ecc.) e cosa possiamo fare per essere efficacemente solidali con i nostri fratelli del Sud (si pensi anche alla recente catastrofe nel Sud-Est asiatico). La stranezza è questa: quando, nel 1960, la Fao lanciò la “Campagna mondiale contro la fame” e l‘Occidente prese coscienza dell’esistenza di miliardi di uomini senza il necessario alla vita, in Italia i missionari furono i protagonisti delle prime pagine di giornali e telegiornali, perché portavano preziose esperienze sulla via da percorrere, in particolare la partecipazione alle micro-realizzazioni per un “aiuto non da Stato a Stato, ma da popolo a popolo”. Gli istituti missionari erano sommersi da richieste di conferenze, progetti da finanziare, articoli, mostre fotografiche, interventi in scuole, chiese, giornali, radio e ambienti vari: nel 1963, proprio da questi inviti troppo numerosi per le nostre forze, al Pime di Milano è nata “Mani Tese”.
Era un tempo di appassionato interesse per la gente: si impegnavano scuole e fabbriche, banche e comuni, università e sindacati, associazioni di artigiani e commercianti, gruppi di ogni genere. Nella generale ignoranza delle situazioni e dei rimedi, quelli che davano la vita per gettare ponti di comprensione e di aiuto fra i popoli erano quasi ritenuti il toccasana di una tragica situazione che allora si stava scoprendo. Ricordo che scrissi un articolo dal titolo Non mitizziamo i missionari, nel quale sostenevo che la Chiesa non risolve il problema “fame nel mondo”, ma indica la via da percorrere per entrare in rapporto fraterno con i popoli.
La stranezza che mi stupisce è questa: oggi, quarant’anni dopo, nei discorsi sui rapporti fra Nord e Sud i missionari sono quasi del tutto dimenticati. Se si esagerava allora nel ritenerli “la” soluzione, oggi si esagera nel senso opposto; cioè si ignorano coloro che hanno storicamente acquisito proprio quelle esperienze di aiuto e scambi culturali e religiosi che nelle situazioni attuali si rivelano ancor più indispensabili dell’aiuto economico (il terrorismo islamico, ad esempio, non viene da radici economiche, ma religiose e culturali).
Duemila volontari, quindicimila missionari
Si parla molto dei “volontari”, specie delle associazioni presenti nelle situazioni di emergenza, tipo “Croce Rossa”, “Medici senza frontiere”, “Emergency” ecc. Dopo che Simona Pari e Simona Torretta sono scampate ai terroristi in Iraq, la stampa italiana ha dato l’impressione di una grande ondata di volontari che si impegnano per i più poveri. Immagine positiva, ma si dimentica che esistono, da lungo tempo, migliaia di missionari italiani sul posto. Lo dico non per contrapporre gli uni agli altri, ma solo per ristabilire le misure: i volontari laici italiani in campo internazionale sono 2.010 (statistica del 2002), i missionari italiani nei continenti extraeuropei 15.030, secondo una statistica del 2003 di «Mondo e Missione». Per i volontari italiani all’estero, ecco i dati che si riferiscono al 2002, forniti dall’“Associazione Ong italiane”, di cui fanno parte 161 Ong delle tre Federazioni che mandano personale all’estero, cioè la Focsiv (Federazione organismi cattolici di servizio internazionale volontario), il Cocis e il Cipsi di volontariato laico (questi dati sono ritenuti esatti al 95%, in quanto alcuni organismi non hanno risposto al questionario dell’inchiesta): progetti in atto all’estero: 2.174; personale espatriato: 2.010; percentuali dei finanziamenti: Ministero degli Esteri: 17%; Ue: 32; altri enti pubblici: 12; enti locali: 8; privati: 32. La Focsiv ha 56 Ong collegate con 817 volontari all’estero e 641 progetti. E veniamo ai missionari italiani: vescovi italiani in missione: 80; sacerdoti diocesani: “Fidei donum” 580; sacerdoti “Fidei donum” incardinati in diocesi di missione o in servizio missionario senza convenzione: 170; missionari religiosi o di istituti missionari (sacerdoti e laici consacrati a vita: “fratelli”): 6.000; religiose: 7.500; missionari laici in missione: 700. Il totale del personale missionario italiano all’estero è dunque di 15.030, cifra non esauriente in quanto diversi enti ecclesiali non hanno risposto all’inchiesta. I missionari italiani in missione erano 4.013 nel 1934, 7.713 nel 1943 e 10.708 nel 1965, secondo un’inchiesta della rivista «Fede e Civiltà (Missione Oggi)» dei Saveriani, che risale al marzo 1965. Che oggi siano oltre 15.000 è un fatto straordinario, dovuto alla coscienza nuova della missionarietà creata dal Vaticano II e dalla Cei nella Chiesa italiana, che ha portato diocesi, istituti religiosi e movimenti laicali a entrare con personale nel campo delle missioni.
Volontari e missionari: c’è posto per tutti
In Italia, il volontariato internazionale è nato fra le due guerre mondiali come “laicato missionario”, laici che partivano con i missionari. La prima associazione che si ricordi è la Ummi (Unione medico missionaria italiana), fondata a Verona nel 1933 dal medico Deodato Desenzani (1882-1960), sacerdote e missionario del Pime in India dal 1914 al 1960; ma dopo il 1945 sono nati numerosi enti di laici missionari: il Cuamm a Padova, il Celim e l’Afi a Milano, la Falmi e l’Afmm a Roma. Durante la stagione “rivoluzionaria” del Vaticano II, i testi conciliari si rivolgono ai battezzati per ribadire che la missione della Chiesa è di tutto il “popolo di Dio”. Infatti il periodo aureo dei missionari laici è stato dal 1965 al 1970, con la nascita di molti organismi e movimenti, che in genere trovavano nelle diocesi, negli istituti missionari e negli ordini religiosi aventi missioni il terreno fertile per sbocciare.
Gli anni Settanta sono invece caratterizzati dal “volontariato internazionale”, nato in seguito alla “Legge Pedini” del 1966 (modificata nel 1971 e nel 1979) e che metteva a disposizione i fondi della “Cooperazione internazionale” del Ministero degli Esteri per la realizzazione di “progetti di sviluppo” nei Paesi poveri. Fino all’inizio degli anni Novanta si è parlato più di “volontariato internazionale” che di “laicato missionario”, anche per la moltiplicazione rapida (e in parte abnorme, cioè senza sufficienti basi popolari e formative) di organismi che assumevano impegni per realizzare opere di sviluppo nel terzo mondo finanziate dal governo. A metà degli anni Ottanta (governi Craxi, con l’allora ministro Francesco Forte), l’Italia dava ai Paesi poveri lo 0,45-0,50% del suo Pil, oggi siamo allo 0,17%. Con la drastica riduzione dei fondi governativi, non poche Ong sono andate in crisi, sono scomparse o hanno diminuito la loro presenza di volontari sul campo; nella Chiesa italiana si sta ritornando alla formula del “laicato missionario”.
In questa rapidissima sintesi, non do alcun giudizio di valore: missionari e volontari laici sono ambedue necessari, ogni spirito di concorrenza sarebbe assurdo di fronte all’immensità e infinita varietà del campo d’azione! C’è posto per tutti, l’importante è che ciascuno abbia la sua precisa identità e sia riconosciuto per quello che è. L’esplodere del volontariato è un fenomeno molto positivo, nato nelle società cristiane dell’Occidente e poi diffuso in tutto il mondo. Alcuni anni fa padre Fedele Giannini di Lucca, dopo 40 anni di Giappone, mi diceva: «Quando sono venuto qui all’inizio degli anni Cinquanta, il senso del gratuito non esisteva in questa società: alla massa dei poveri ci pensava fin dove poteva il governo, la società non si muoveva. Le missioni cattoliche, piccole isole in un mare non cristiano, facevano alcuni servizi alla popolazione, allora molto povera. E tutti si stupivano perché erano servizi gratuiti dati a tutti. Venivano a chiederci: “Ma cosa ci guadagnate? Quali sono i motivi della vostra azione gratuita a servizio dei più poveri?”. Mezzo secolo dopo, continuava Giannini, la società giapponese è radicalmente cambiata e oggi pullula di gruppi e associazioni di volontariato, di aiuto gratuito per le emergenze, tanto da mandare anche volontari nei Paesi poveri (alcuni lavorano con il Pime in Cambogia). Io considero questo uno dei maggiori frutti della presenza di noi missionari cristiani e delle nostre piccole comunità nel popolo giapponese» (lo 0,8% su 130 milioni).
Per i “progetti di sviluppo” meglio il laico del prete
Non esiste, in Italia, alcuna contrapposizione fra volontari e missionari, ma possiamo chiederci perché i secondi non sono più ricordati, non danno più di sé un’immagine significativa. Penso che il motivo di fondo è che spesso appaiono diversi da quel che sono, operatori sociali e non messaggeri del Vangelo e fondatori di nuove Chiese. Cosa distingue il missionario dal volontario? Tutti e due sono necessari e hanno il loro posto. Il missionario parte con questa convinzione, tante volte proclamata nei documenti ecclesiali dal Vaticano II ad oggi: il Vangelo è il maggior contributo che i cristiani possono dare allo sviluppo dei popoli. Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio è molto chiaro: «La missione della Chiesa non è di operare direttamente sul piano economico o tecnico o politico o di dare un contributo materiale allo sviluppo, ma consiste essenzialmente nell’offrire ai popoli non un “avere di più”, ma un “essere di più” educando le coscienze col Vangelo». L’autentico sviluppo umano deve affondare le sue radici in una evangelizzazione sempre più profonda.
Il problema è di chiederci se, al di là dei documenti conciliari e pontifici, noi missionari, noi Chiesa di base, ci crediamo davvero o no. Leggendo certi articoli o libri scritti da cristiani (a volte persino da missionari) sullo sviluppo dei popoli, mi chiedo: in tutto questo gran parlare di soldi e di tecnologie, di debito estero e di multinazionali, di finanziamenti allo sviluppo e di clausole commerciali, dov’è finito Gesù Cristo? I missionari che parlano quasi solo di progetti sociali-educativi-sanitari-commerciali mettono in ombra, senza volerlo, l’azione che caratterizza il missionario, l’annunzio di Cristo ai non cristiani; che non solo “salva le anime”, ma educa le coscienze, purifica le culture e i costumi, cambia le strutture della società per una migliore umanizzazione. Madre Teresa diceva che «la più grande disgrazia dell’India è di non conoscere Cristo».
Il vero aiuto è donare la vita ai fratelli
C‘è un altro fatto da tener presente. Lo specifico del missionario (rispetto al volontario laico) è una condivisione profonda con i popoli. Il giovane missionario che va in Bangladesh, o in Camerun o in Guinea-Bissau sa che ha davanti uno o due anni di studio della lingua locale e che deve ambientarsi (affrontando una via crucis) nel clima, cibo, mentalità, costumi, isolamento, basso livello di vita, miseria, guerre e guerriglie. Poi incomincia ad agire: è “uno di loro” e ha l’opportunità di condividere, diventare amico, educare e lasciarsi educare, dialogare, aiutare. Il vero aiuto ai popoli poveri è questo! Tutto il resto, soldi, macchine, commerci, è indispensabile. Ma il primo appello ai giovani del mondo ricco va rivolto anzitutto in questa direzione e prospettiva di vita: cosa siete disposti a dare di voi stessi, della vostra esistenza, ai poveri? Troppo comodo protestare contro le “multinazionali” e poi starsene tranquilli in un mondo sicuro, ricco, evoluto, benestante come il nostro!
Ho pubblicato in ottobre la biografia di un grande missionario di Tortona: Cesare Pesce (1919-2002), una vita in Bengala; egli arriva in Bengala (“la tomba dell’uomo bianco”) nel 1948 e vi rimane fino alla morte nel 2002: 54 anni spesi in un popolo fra i più poveri ma anche fra i più cordiali, geniali, simpatici. Ha dimenticato se stesso e si è dato tutto agli altri. Le sue avventure sono più affascinanti di un romanzo di fantasia. Nonostante difficoltà e sofferenze, Cesare ha realizzato l’ideale missionario in modo completo, unendo annunzio e testimonianza di Cristo, aiuto ai più poveri e promozione dello sviluppo tecnico ed economico, dialogo interreligioso con la maggioranza islamica. Quale modello migliore, per gettare ponti di comprensione e di aiuto fra i popoli, le culture, le religioni?
Pochi ricordano questi italiani che spendono la vita per l’incontro fraterno con i popoli secondo le indicazioni del Vangelo. Alla ribalta vengono solo i volontari laici che, nelle situazioni di emergenza, sono presenti per aiutare in guerre, rivolte, campi profughi. Diciamo loro grazie, rischiano la vita per fare del bene, tra i volontari ci sono meravigliose figure di uomini e donne. Ricordo Anna Tonelli che ho conosciuto a Merca in Somalia nel 1978. Il vescovo di Mogadiscio, Guglielmo Colombo, mi aveva portato a visitarla e uscendo dal suo dispensario mi diceva: «Come testimone del cristianesimo, questa donna vale almeno tre preti». Ma quante altre migliaia di italiani, sacerdoti, suore, fratelli religiosi e missionari laici vivono anni e decenni fra i popoli e non sono mai ricordati! I media parlano solo delle situazioni di emergenza, del “pronto soccorso” in occasione di guerre, non della continuità di un servizio ai popoli: “emergency”, ma non “continuity”.
È questione di mentalità, di vocazione. I missionari che partono, anche oggi, vanno con la prospettiva di rimanere nella loro “patria di adozione” per sempre, pur con qualche periodo di vacanza in Italia. Il senso della loro vita cambia, per cui accettano fin dall’inizio di diventare africani o bengalesi, pur rimanendo italiani. Ancora padre Pesce, dopo mezzo secolo di Bengala, in una vacanza in Italia diceva: «Sul mio passaporto è scritto che sono italiano. Ma ormai mi sento più bengalese che italiano. Il mio popolo è quello là e spero di ritornare presto». È diverso da chi parte per un contratto di alcuni mesi, o anni, e al suo ritorno riprende a fare il medico o l’infermiera o qualsiasi altra professione. Tutto bello e provvidenziale, ma la differenza c’è e sono convinto che la testimonianza dei missionari è quella più significativa per i giovani: dare la vita per i fratelli. Come ha detto Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13).
Piero Gheddo
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